The Sacrifice - Michael Nyman
Un tempo suonavo il piano. Correvo alla mia scuola prima dell'inizio della lezione e mi chiudevo in aula assieme al mio piano. Suonavo, suonavo e tenevo gli occhi chiusi e ascoltavo le note piangendo. Era la mia liberazione, il mio connubio col mondo, l'espressione del mio dolore.
Poi arrivava la mia insegnante e le mie mani non erano in grado di muoversi sul piano, non erano in grado di spingere i tasti di avorio ed ebano. E il suono usciva sommesso e il mio anulare non ne voleva sapere di premere con decisione quelle note. Ed erano urla, stilli e bacchettate. E il mio piangere che rigava il viso.
Stremata da tanta desistenza poi lei si allontanava a fumare la sua sigaretta. E io chiudevo gli occhi e suonavo. Il Sacrificio ... Era un dolore per me esternare per denaro il mio essere ed era insito dentro di me la desistenza e la diffidenza a farlo. Ma non era cattiveria, era dare il mio cuore ad una persona arida. Io non volevo.
E suonavo, le mani andavano da sole e gli occhi chiusi. Maurizio, il mio insegnante di flauto, si avvicinò senza farsi sentire e mi vide piangere suonando il piano, senza sbagliare una nota. Si lasciò scivolare per terra appoggiando le spalle al muro e tenendo le ginocchia al petto con le braccia. Solo un suo gemito mi fece capire che lui era la, ma continuai a suonare. Lui poteva, poteva sentirmi, poteva entrarmi dentro, non mi avrebbe fatto del male.
Lo amavo, mi amava.
Amavamo le nostre esternazioni musicali e tutti e due concedevamo all'altro di poter entrarci dentro ed ascoltare quello che non era parole ma musica, colori e miraggi che portavano la testa altrove, lo stomaco non c'era e il corpo era emozione. Finii di suonare. Appoggiai le mani alle gambe e tolsi i piedi dai pedali. Non aprii gli occhi. Attesi che si levasse da terra e quando il suo passo si allontanò dalle mie orecchie riaprì gli occhi al buio della stanza.
Aveva spento la luce, avevo suonato al buio delle tende rosse e dell'odore di muffa della stanza. E tutto era diverso intorno a me, era luce, colore e suono. Aprì gli occhi al buio. Era come essere nel grembo di una madre arresa, mi guardai attorno impaurita, non mi attendevo quel buio, quel freddo.
Mi alzai inciampando. Ero a terra con le mani vicine e aperte. Di fianco distesa. Rimasi li a piangere per quella sensazione di abbandono che purtroppo avevo già provato e avrei riprovato ancora.
Tornò da dietro le tende rosse. Si mosse sicuro. Mi alzò e mi rimise seduta al piano. Solo una parola uscì dalle sue labbra: "Ancora". Ripresi a suonare il mio Sacrificio. E lui si mise seduto accanto a me e profanò la mia anima mettendo le sue mani sul piano e suonando la seconda voce assieme a me. E le nostre anime erano assieme e le nostre mani si sfioravano appena e io nostri occhi erano chiusi, piangevamo lacrime di dolore e condivisione.
La musica terminò, il mio cuore esplodeva assieme al suo. Si alzò e accese la luce allontanandosi.
Il giorno dopo tornai a scuola stavolta per seguire la lezione di flauto. Se ne era andato. Troppo il dolore della condivisione, troppo il dolore di un'anima che non poteva essere a 35 anni innamorata di un'anima di 15. Rimasi per ore seduta col suo flauto di legno fra le mani.
Un biglietto: "Prendilo. E' tuo. Assieme al mio cuore".
Lasciai li il flauto e scrissi un altro biglietto: "A che serve avere il tuo cuore se tu hai il mio? A che serve avere un flauto se il fiato che usciva dalle mie labbra era dato dalla tua forza? A che serve continuare a suonare se non c'è nessuno che ascolta il mio sentire? A che serve l'aver amato tanto?"
E ancora piango se ascolto le note del mio Sacrificio, gli urli del mio cuore e il dilaniarsi della mia anima per colui col quale mai avevo proferito parola alcuna, se non in quel biglietto, e che sapeva così tanto e affondo di me solamente sentendo le mie mani muoversi su un piano e la mia anima entrare in un flauto e trasformarsi in musica.
Poi arrivava la mia insegnante e le mie mani non erano in grado di muoversi sul piano, non erano in grado di spingere i tasti di avorio ed ebano. E il suono usciva sommesso e il mio anulare non ne voleva sapere di premere con decisione quelle note. Ed erano urla, stilli e bacchettate. E il mio piangere che rigava il viso.
Stremata da tanta desistenza poi lei si allontanava a fumare la sua sigaretta. E io chiudevo gli occhi e suonavo. Il Sacrificio ... Era un dolore per me esternare per denaro il mio essere ed era insito dentro di me la desistenza e la diffidenza a farlo. Ma non era cattiveria, era dare il mio cuore ad una persona arida. Io non volevo.
E suonavo, le mani andavano da sole e gli occhi chiusi. Maurizio, il mio insegnante di flauto, si avvicinò senza farsi sentire e mi vide piangere suonando il piano, senza sbagliare una nota. Si lasciò scivolare per terra appoggiando le spalle al muro e tenendo le ginocchia al petto con le braccia. Solo un suo gemito mi fece capire che lui era la, ma continuai a suonare. Lui poteva, poteva sentirmi, poteva entrarmi dentro, non mi avrebbe fatto del male.
Lo amavo, mi amava.
Amavamo le nostre esternazioni musicali e tutti e due concedevamo all'altro di poter entrarci dentro ed ascoltare quello che non era parole ma musica, colori e miraggi che portavano la testa altrove, lo stomaco non c'era e il corpo era emozione. Finii di suonare. Appoggiai le mani alle gambe e tolsi i piedi dai pedali. Non aprii gli occhi. Attesi che si levasse da terra e quando il suo passo si allontanò dalle mie orecchie riaprì gli occhi al buio della stanza.
Aveva spento la luce, avevo suonato al buio delle tende rosse e dell'odore di muffa della stanza. E tutto era diverso intorno a me, era luce, colore e suono. Aprì gli occhi al buio. Era come essere nel grembo di una madre arresa, mi guardai attorno impaurita, non mi attendevo quel buio, quel freddo.
Mi alzai inciampando. Ero a terra con le mani vicine e aperte. Di fianco distesa. Rimasi li a piangere per quella sensazione di abbandono che purtroppo avevo già provato e avrei riprovato ancora.
Tornò da dietro le tende rosse. Si mosse sicuro. Mi alzò e mi rimise seduta al piano. Solo una parola uscì dalle sue labbra: "Ancora". Ripresi a suonare il mio Sacrificio. E lui si mise seduto accanto a me e profanò la mia anima mettendo le sue mani sul piano e suonando la seconda voce assieme a me. E le nostre anime erano assieme e le nostre mani si sfioravano appena e io nostri occhi erano chiusi, piangevamo lacrime di dolore e condivisione.
La musica terminò, il mio cuore esplodeva assieme al suo. Si alzò e accese la luce allontanandosi.
Il giorno dopo tornai a scuola stavolta per seguire la lezione di flauto. Se ne era andato. Troppo il dolore della condivisione, troppo il dolore di un'anima che non poteva essere a 35 anni innamorata di un'anima di 15. Rimasi per ore seduta col suo flauto di legno fra le mani.
Un biglietto: "Prendilo. E' tuo. Assieme al mio cuore".
Lasciai li il flauto e scrissi un altro biglietto: "A che serve avere il tuo cuore se tu hai il mio? A che serve avere un flauto se il fiato che usciva dalle mie labbra era dato dalla tua forza? A che serve continuare a suonare se non c'è nessuno che ascolta il mio sentire? A che serve l'aver amato tanto?"
E ancora piango se ascolto le note del mio Sacrificio, gli urli del mio cuore e il dilaniarsi della mia anima per colui col quale mai avevo proferito parola alcuna, se non in quel biglietto, e che sapeva così tanto e affondo di me solamente sentendo le mie mani muoversi su un piano e la mia anima entrare in un flauto e trasformarsi in musica.
3 commenti:
Che dirti? Mi sono emozionato e non poco a leggere questo racconto! E c'è pure l'elemento poetico per definizione: è dal flauto e dal piano che escono le note musicali.
Della musica si può solo dire, non vedendola e disponendo di molteplici generi e miscele musicali, sia infinitamente candida.
Come una voce che esce quando non si sa ascoltare e rimane invece come un sottile respiro nelle dita del cuore.
Sentimenti puri, amore vero.
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